E’ il monumento più emblematico di Deliceto, poiché racchiude in sé gran parte della sua storia.
E’ stato dichiarato Monumento Nazionale nel 1902. Generalmente viene chiamato “Normanno-Svevo”, ma sia dalle fonti storico-letterarie, sia da alcuni tratti di costruzione, la sua nascita è da farsi risalire alla seconda metà del IX secolo, cioè all’età longobarda. Le fonti letterarie che determinano l’inizio della sua costruzione sono: Leone Ostiense, in “Cronicon Cassinensis” e Giuseppe Bracca, in “Memorie storiche di Deliceto”.
Ha subito nel corso dei secoli ampliamenti, rifacimenti e ricostruzioni, che si sono protratte fino al periodo aragonese. Fu costruito sulla punta rocciosa che domina il paese. A levante l’ampia vallata del torrente Gavitello, a oriente la rupe scoscesa il cui dislivello supera i cento metri e a occidente la vallata del torrente Fontana.
Situato in un luogo la cui posizione facilita l’osservazione e la difesa, esso ha avuto per molti secoli la funzione di una fortezza di grande importanza strategica e militare, più che essere stabile dimora nobiliare. Il castello oggi presenta una forma del tutto diversa dall’originale, quella cioè di un trapezio irregolare con tre torri agli angoli. Ma anticamente, come ci riferisce il Bracca, doveva avere la forma triangolare. Tutta la costruzione è costituita da pietre calcaree prese nelle contrade circostanti e legate tra di loro secondo un intreccio irregolare, come avviene del resto in tanti altri castelli della Puglia. Le volte e gli archi interni sono costruiti in mattoni color ocra o giallo, anch’essi provenienti da fornaci locali. E’ privo purtroppo di elementi decorativi ed architettonici caratteristici. La cortina N.E., che misura 55 metri di lunghezza, è incastrata tra le torri tronco-coniche del “Molo” e del “Parasinno”, entrambe costruite durante la dominazione angioina, come si evince dalle caratteristiche e dal tipo di costruzione. La cortina Est, che edificata a filo di roccia sul precipizio de “la Ripa”, strapiomba sul sottostante torrente Fontana, ha una lunghezza di 66 metri. E’ costruita a forma di scarpata, ed inizia dalla suddetta torre “Parasinno” per arrivare fino all’estremità occidentale terminante a spigolo.
Le altre due cortine, le più brevi, si incrociano con la torre Normanna, il “Donjon” o “Torrione”. L’ingresso è sormontato da uno stemma calcareo di forma rettangolare dei Piccolomini d’Aragona, risalente all’anno 1444. L’interno del castello è occupato da un grandioso cortile o piazza d’armi costruito in mattoni disposti a spina di pesce e da ciottoli di forma irregolare. Al centro vi è una cisterna di forma ottagonale, che serviva per la raccolta dell’acqua piovana. Sotto il pavimento del cortile sono state scoperte due “neviere”. Subito dopo l’ingresso, sulla destra, una lunga scalinata in pietra immette in un sotterraneo lungo e buio, che un tempo era adibito a scuderia, magazzino e cantina. Proprio in questa zona durante i lavori di restauro è stata scoperta la parte più antica del castello risalente al IX secolo, costituita da “Domus” o “Castra Longobarda”, che ha una lunghezza di circa 50 metri. Essa era costruita a due piani sovrapposti ed aveva due porte d’ingresso con archi a tutto sesto e stipiti in pietra serena. Erano rivolte l’una verso l’abitato e l’altra verso la torre “Parasinno”.
Al piano sovrastante (livello cortile) si conservano gli alloggi del feudatario composti da sei stanze intercomunicanti, la cappella in cui vi erano conservate le statue di santa Barbara, protettrice dell’artiglieria, e di san Vito, patrono della rabbia. I due mezzo-busti sono attualmente conservati nella chiesa di San Rocco.
Proseguendo sempre verso destra, ci si trova dinanzi ad un portale sormontato dallo stemma di Alessandro Miroballo d’Aragona, marchese di Deliceto. Varcato il primo portale se ne incontra un secondo, anch’esso in pietra, che mostra chiaramente nei due angoli in alto una “mezzaluna”, simbolo dei Duchi Longobardi di Benevento. Certamente questo portale, come altri due fregi scolpiti sugli stipiti di alcune finestre dell’aula magna, erano parte integrante dell’antica costruzione longobarda, e solo successivamente furono riutilizzati e sistemati nell’attuale posizione. Questo portale immette nell’aula magna del castello, molto ampia e piena di luce. Al centro della sala, lungo la parete destra, vi è un grosso camino che reca sulla cappa lo stemma dei Bartirotti, datato 1602. andando ancora oltre, si giunge al termine della cortina, dove si trova la torre tronco-conica, detta del “Parasinno”.
Questa è un luogo tetro e angusto. La tradizione popolare vuole che anticamente in essa vi fossero le prigioni e uno strumento di morte chiamato “Mulino a rasoio”, che doveva servire a punire e ad eliminare chi fosse caduto in disgrazia del feudatario. In alcuni locali della torre si possono ancora notare, incise sull’intonaco, croci benedettine e latine, il sole, scudi recanti scritte, mani, foglie, nonché iscrizioni redatte in lingua italiana, latina e greca. Invece, sul lato interno della cortina orientale, si incontrano gli alloggi degli ufficiali e dei militari. Nel piano sottostante vi è un lungo androne, con tante finestre lungo la parete esterna, che funzionava da deposito, ed era preceduto da uno stanzone con caratteristiche volte a vela in mattoni color ocra d’epoca angioina. Nella parte più alta della cortina c’è un camminamento di ronda, che conduce alla torre tronco-conica detta del “Molo”, anch’essa risalente al periodo angioino, che prende il nome dal rione sottostante. Alla sua base, dal lato interno si può notare un semiarco gotico risalente al primitivo portale del periodo normanno, che era l’antica porta d’accesso al castello.
Questo tratto fu l’unico, secondo Bracca, ad aver subito nei secoli uno sfondamento da parte dei Saraceni, perché era quello più facilmente accessibile e vulnerabile. A partire da qui verso il torrione, si distende l’ultima cortina del castello, quella settentrionale. Dalla parte interna del cortile si snoda una serie di arcate, l’arco maggiore serviva di ingresso al forno, mentre gli altri davano adito a piccole stanze, che erano destinate ad usi diversi.
Al termine della cortina, si erge maestosa la “Torre Normanna”, cioè il Mastio, detto volgarmente il “Torrione”, perché la più alta di tutte. Ha forma prismatica a pianta quadrata e misura un’altezza di circa trenta metri. Ha gli angoli scolpiti con pietre bugnate, pareti molto spesse e solidamente cementate.
La torre, orientata verso il paese, anticamente era circondata da un fossato con relativo ponte levatoio, che ne impediva l’accesso agli eventuali assalitori. E’ suddivisa in quattro piani a vani sovrapposti, due con volta a sesto acuto e due con il relativo pavimento in legno. Venne costruita sulle fondamenta di una preesistente torre longobarda. Il piano interrato, cioè quello a contatto con il terreno roccioso, era adibito a deposito viveri e aveva una cisterna coibentata per la raccolta dell’acqua piovana, che serviva da approvvigionamento in caso di assedio o di guerra.
Il piano terra, al quale si accede tramite una botola del pavimento, per lungo tempo è stato adibito a carcere.
Il piano sovrastante, a volta gotica, era diviso in due settori da un solaio in legno ed era in origine l’abitazione vera e propria del feudatario. Ad esso si accedeva tramite l’unica porta d’ingresso che, in caso di pericolo, veniva chiusa dall’interno tramite argani o funi. Conserva ancor’oggi gli originali camini in pietra ed incassata nel muro che porta alla sommità della torre, da dove lo sguardo spazia all’infinito. Sia sopra la porta d’ingresso della torre, sia sopra la seconda finestra della stessa, quella che guarda verso il paese, sono incastonati nel muro due stemmi identici scolpiti in arenaria e con la stessa tecnica, di cui uno più abraso e rovinato dalle intemperie. Essi rappresentano un fiore, forse un giglio, composto da sei corolle e da un bocciolo centrale, collocati lì dai primi feudatari.
Sulla scia degli eventi storici del sud il castello fu dato in concessione a signori appartenenti alle seguenti casate: gli Altavilla, i Loretello, i De Caprosia, i De San Giorgio, gli Acciaroli, i De Sangro, i Piccolomini, i Bartirotti e i Miroballo.
L’ultimo ad abitarlo è stato il marchese di Deliceto Cesare (Francesco) Miroballo, che morì in giovane età nel 1790. dopo, il maniero venne incamerato dal Demanio comunale e subendo alterne vicende finì col ridursi in pessimo stato di conservazione, tanto da essere adibito a deposito di paglia, legna, ecc.
Agli inizi degli anni ’50 fu sottoposto a lavori di restauro conservativo, che gli hanno dato la forma e l’aspetto attuale.
Da diversi anni il castello non è visitabile per lavori di restauro strutturali ma che sono in fase di ultimazione e presto sarà restituito al popolo delicetano.